I Vantaggi del lungo termine

Disporre di una buona strategia, una disciplina corretta e sapere quando non fare acquisti segneranno il sentiero dell’investitore.

Qualche anno fa, Jeremy Siegel pubblicò un articolo in cui dimostrava che, nel periodo 1802-2013, l’investimento in azioni statunitensi ha fatto meglio rispetto a quelli focalizzati su tutte le altre asset class. L’esperto analizzò anche il rapporto rischio/rendimento di un portafoglio costituito da azioni e bond, in funzione del tempo che le singole attività permanevano all’interno del portafoglio. In questo modo, prendendo in considerazione un orizzonte complessivo di oltre 200 anni, selezionò portafogli a 30, 20, 10, 5, 2 e 1 anno e determinò la frontiera efficiente, vale a dire la combinazione tra le due asset che offre la migliore performance con il minor livello di rischio associato.

A trenta anni si ottiene una performance medio annua del 6.7% se si investe la totalità del patrimonio in azioni, con una volatilità approssimativamente del 2%. Sempre in un lasso di tempo di trenta anni, l’investimento in titoli di debito avrebbe offerto una performance medio annua del 3,5%, con una volatilità di circa il 2,3%. In altre parole, su un orizzonte temporale di trenta anni, le azioni hanno offerto di più e con un minore livello di rischio. Se ipotizziamo di aver costruito un portafoglio con il 68% di azioni e la restante parte in bond, saremmo riusciti a ottimizzare la performance in funzione del minor livello di rischio possibile.

Tuttavia, se si decide di ridurre gradualmente la lunghezza dei periodi presi in considerazione, il livello del rischio tende a crescere. La quota destinata alla componente azionaria dovrà obbligatoriamente scendere se volessimo perseguire il minor livello di rischio possibile per ogni punto di rendimento ottenuto. Siegel dimostra che, su un orizzonte temporale di cinque anni, la quota destinata ai titoli di rischio dovrebbe scendere fino al 25% del portafoglio. Sui cinque anni, per ottenere lo stesso rendimento medio annuo realizzabile a trenta anni, la volatilità passerà al 5%. A un anno, la performance può lievitare fino all’8%, ma lo stesso livello è registrato per la volatilità. Secondo lo studio di Siegel, la volatilità dell’investimento in azioni è maggiore nel breve termine ma, nel lungo termine, tende addirittura a portarsi al di sotto di quella registrata dall’investimento puramente obbligazionario. In trenta anni, un portafoglio costituito al 100% da azioni è meno volatile rispetto a un portafoglio obbligazionario puro.

L’osservazione dei singoli periodi conferma che l’analisi delle performance del rischio dovrebbe spingere l’investitore a bilanciare periodicamente il portafoglio, approfittando dei crolli per acquistare alcune azioni e vendere quelle con un P/e alto. Secondo Siegel, un P/e vicino a quindici si trova nella media e uno prossimo a venti è sopra la media (condizionando la capacità di generare performance per il titolo).

Siegel analizza anche la relazione tra struttura dei portafogli e aspettativa di vita nella maggior parte dei paesi industrializzati. Attualmente, un pensionato residente nei paesi occidentali ha buone chance di vivere almeno venti anni dal momento della richiesta dell’assegno previdenziale. Per questa ragione, e per le considerazioni fatte prima sulle perfomance conseguibili in lassi di tempo che vanno dai cinque ai venti anni, Siegel sostiene che non si dovrebbe tagliare completamente la quota di portafoglio destinata alle azioni nel momento in cui si va in pensione.

Contrariamente a quanto propugnato dall’esperto, la maggior parte degli investitori istituzionali e privati ha una view orientata al breve termine perché gli analisti tendono a raccogliere i risultati aziendali in periodi di tempo sempre più corti e gli investitori tendono a rincorrere rendimenti quasi istantanei. Paradossalmente, l’allungamento dell’aspettativa di vita viene accompagnato da una view sempre più orientata al breve termine, con l’orizzonte temporale sempre più ridotto. I motivi? il mercato ha la tendenza a reagire in modo scomposto alla diffusione di notizie che hanno un impatto di brevissimo termine, i media hanno bisogno di titoli altisonanti per attirare l’attenzione dei lettori e i professionisti del settore della gestione ricevono compensi elevati solo se centrano risultati positivi in un lasso di tempo ristretto.

A partire dal 1920, mai nella storia erano state rilevate sul Nyse tante posizioni caratterizzate da una visione a brevissimo termine. Alla fine del 2014, la durata media delle posizioni aperte sull’indice di New York era di circa 1,92 anni. Attualmente la durata media è scesa fino ai nove mesi. I dati si riferiscono sia alle posizioni aperte da investitori istituzionali sia da investitori retail. Il tempo medio di permanenza delle singole posizioni all’interno dei portafogli è di circa 1,45 anni ma, secondo il settore preso in analisi, la permanenza si può allungare fino a una media di due anni. La ragione? Secondo lo studio risiede nelle modalità seguite per remunerare i gestori: la maggior parte dei money manager è remunerata in base ai risultati conseguiti nel breve termine. Il 79% dei gestori consultati riceve meno del 50% dei propri compensi in funzione dei risultati conseguiti nel lungo termine.

Sembra che l’industria, pur conoscendo bene quali siano i vantaggi dell’investimento nel lungo termine, tenda a farsi dominare dalle pulsioni di breve termine. Il sistema delle remunerazioni tende a premiare quei gestori che creano suggestioni illusorie nel breve termine. Il danno nel lungo termine per una strategia improntata sull’investimento in azioni è incalcolabile.

A cura di: alfabeto.fideuram.it

Fonte: www.cambiconsulenzafinanziaria.it

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